La combattente. Il passato non si può rimuovere
Di Geraldine Meyer
È sempre difficile raccontare di sé senza correre il rischio di cadere in una sorta di autobiografismo ombelicale. Ancor più quando, ad essere narrato, è il dolore devastante e egocentrico della perdita. Sempre in agguato, a inquinare la memoria, c’è la tentazione di sbandare verso una sterile (e a volte autocompiaciuta) commiserazione, una chiusura all’interno dell’autoreferenzialità. Ma Stefania Nardini, con questo suo La combattente, si tiene ben lontana da tutto ciò.
Con la storia di Angelita, colpita al nucleo di tutta la sua vita, dalla morte del marito per un cancro che lo porta via dopo trent’anni di vita insieme, siamo condotti sì dentro il dolore più privato. Ma anche, e soprattutto, dentro un ripercorrere la storia degli anni di piombo del nostro paese. Eccoci dunque in quel “privato che è politico” che qui riconquista quella dignità strappata da un abuso di tale locuzione. Un abuso che ne ha fatto perdere di forza, svuotando e il privato e il politico.
La combattente, invece, tiene insieme questo due piani in un equilibrio personale e storico, privato e pubblico. Una scoperta casuale, nella grande casa di campagna, teatro di ciò di cui era fatta la vita di quelle due persone, un segreto, diventa il “deus ex machina” da cui Angelita comincia una ricerca che è del passato del marito, del passato di tutto il nostro paese e di sé stessa, davanti ad un dolore che non lascia scampo se gli si concede di assorbire tutte le nostre forze. Ed è da lì che comincia la battaglia della donna. Una battaglia che coinvolge il rapporto con il figlio, quello con il tracimare di un silenzio del passato che si riflette su tutto il presente e che la costringe a rileggere tutta la sua vita.
Lasciarsi trascinare dal freddo e dal vuoto che la perdita lascia sarebbe la cosa più “facile” Ma Angelita sa, come Stefania Nardini scrive, che liquidare le cose è più comodo che trovare loro una nuova collocazione. E questo vale per ogni cosa che affolla le sue giornate e i suoi pensieri. Una indagine vera e propria, tra Italia e Marsiglia, terrorismo, scelte estreme, lotta armata, voglia di cambiare il mondo e bisogno di trovare e costruire edifici esistenziali solidi e duraturi. Con la consapevolezza che storia privata e storia pubblico/politica possono sovrapporsi e che le sfumature semantiche che sembrano divergere possono essere abissi.
Stefania Nardini usa una scrittura sobria, lucida, quasi chirurgica senza essere mai asettica. Le pagine in cui racconta il solco che, a un certo punto, si crea tra lei e il figlio sono talmente taglienti da toccare il piano emotivo insieme a quello razionale, con la medesima forza. E sono la mappa di una geografia dell’anima di una donna che si trova ad affrontare due lutti, se così possiamo dire, quello suo di vedova e quello di una utopia politica che tante macerie ha lasciato dietro di sé.
Allora questo libro sembra diventare, oltre che una ricerca, anche una domanda su cosa resti delle storie, delle persone, dei sentimenti, di ciò che si è detto e di ciò che si è omesso. Una domanda che è anche il ribadire quanto e come la parola sia quanto di più politico esista. Anche a livello privato. E di come il non detto possa tracimare nel corpo con drammatici contraccolpi. C’è una preghiera che la religione cattolica ripete prima della comunione e che, ad un certo punto dice: Ma di soltanto una parola e io sarò salvato.” In fondo Angelita cerca proprio una parola, il bandolo della matassa di una storia (che è fatta di parole) per salvarsi e poter ricominciare un’altra vita. Non a caso, ad un certo punto del libro, Angelita comprende come questo possa accadere solo se si concederà di trovare un luogo che sia una pagina bianca. Su cui, appunto, scrivere altre parole. Ma senza cancellare le pagine precedenti. La combattente Angelita sa che non è la rimozione la strada più giusta.
Dal mondo
Letteratura
E/O
2021
160 p., brossura