Con quella faccia un po’ così
Di Geraldine Meyer
Scrive Filippo Tuena nella prefazione a questo Peninsulario di Marino Magliani: “Non so per quale convinzione ho sempre pensato che gli scrittori liguri fossero scrittori di frontiera, anche se un’effettiva frontiera la Liguria la disegna appena nella sua estremità occidentale. Quel che la separa dalle altre terre d’Italia è una striscia compatta e ostile di Appennino, che spinge i paesi verso il mate e che frastaglia le coste in maniera disomogenea. Probabilmente è questa la vera frontiera dei liguri: il mare che li costringe a rimanere addossati a quei monti bassi ma minacciosi.”
Parole queste che ben si attagliano, non so se ai liguri tutti, ma certamente ai protagonisti di questi racconti di Magliani, da poco mandati in libreria dalla casa editrice Italo Svevo. Racconti in cui la Liguria, o frammenti di essa, diventa protagonista esattamente come i personaggi dei racconti stessi. E lo fa proprio partendo dalla parola frontiera. Perché in queste pagine sono i protagonisti stessi a venirci incontro come se, su una frontiera, si trovassero davvero. E non solo sull’orlo di una frontiera geografica, quanto ancor più sull’orlo di una frontiera esistenziale.
In un abbraccio fortissimo tra geografia fisica e geografia dell’anima, quasi a indurci a pensare che queste storie possano essere ambientate solo lì. Quasi a farci pensare che se il contesto geografico fosse stato diverso, sarebbero state inevitabilmente diverse le storie. Del resto è Magliani stesso ad avere dichiarato in una intervista a Rai Cultura che la sua scrittura è scrittura di ciò che conosce, di ciò che, prima di tutto, vede.
E ciò che vede, e racconta in queste pagine scritte nel tempo e nel tempo riscritte, è una umanità cinica e disorientata, radicata e in fuga. Sulla soglia del passato o al limite di un ritorno. O di una illusoria ripartenza. Lo stesso Magliani parla di un debito letterario a Calvino. Ma, qui, tra queste pagine, non si può non sentire la voce di Biamonti. Ma anche quella di Buzzati, nell’ultimo, terribile, cinico, ironico racconto.
In tutti questi racconti vi è, senza dubbio alcuno, un’anima ligure (intesa come attitudine) che aspira al mare, letteralmente e metaforicamente, senza lasciare mai la terra ferma. Quella terra stretta tra mare e monti, di cui scriveva Tuena, che qui appare come sì come frontiera ma anche come limite. Là dove limite non è necessariamente qualcosa oltre il quale non andare, o qualcosa che impedisce il passo. Anzi, in questi racconti e nelle semplici vite dei protagonisti, il limite è proprio un inciampo che costringe a perdere l’equilibrio e ad andare avanti comunque, magari magari meno puri e “innocenti” di come si era all’inizio. Basti leggere la storia del poliziotto del racconto La quota della frontiera, o il machismo di ritorno del protagonista del primo racconto, Manico, ripulito dall’allontanarsi ma impantanato nei soliti clichè una volta che torna.
Una Liguria non da cartolina, di quell’entroterra di piccolezze che, in un attimo, si ribaltano in “eroismo” quello a volte meschino e cinico. Quello di chi vorrebbe “partire” ma infondo non ci riesce mai completamente.
Biblioteca di letteratura inutile
Racconti
Italo Svevo
2022
161 p., brossura