Gennaio 1956, appennino parmense, un piccolo paese. Un luogo ruvido come il maresciallo che scende dal treno per prendere servizio proprio lì. Arriva come forestiero, con tutto il carico che questa parola si porta dietro nei piccoli paesi. Ma lui è un uomo retto, dall’etica molto forte. E, anche per questo, non sarà per lui così difficile conquistarsi la fiducia della gente. Forse anche per una sorta di affinità che, quell’uomo taciturno e a tratti ombroso, riesce a creare con le persone del posto. Di lui si sa che è un uomo ferito, che si porta dentro un grosso dolore che, più di ogni altra cosa, lo rende capace di una compassione profondamente umana, di un rigore che nasce dalla coscienza più ancora che dal rispetto per la divisa che indossa.
Poi c’è un parroco, un uomo che fa del Vangelo la sua bussola per lottare per la giustizia sociale e che, forse anche per quello, non incontra la simpatia né dei notabili delle Democrazia Cristiana né dei comunisti, in un’Italia in cui le ferite del passato non si sono ancora rimarginate e il futuro appare come qualcosa ancora tutto da costruire.
Una storia “marginale”, di un piccolo paese che però, si intreccia profondamente con alcuni avvenimenti che costellarono la storia di quell’anno: la tragedia dei minatori di Marcinelle, la rivolta di Ungheria, l’affondamento dell’Andrea Doria. In un legame di fili più o meno intrecciati, la “storia grande” entra nelle “storie piccole” di questo paese che diviene così, per certi versi, paradigma degli strappi e delle questioni irrisolte di un’epoca difficile e lacerata.
In tutto ciò si inserisce un misterioso omicidio che, inserendo l’elemento giallo, da al racconto un ritmo ancora più intenso. Ma non mettendo in ombra la ricostruzione storica. E questa è, a nostro avviso, una delle abilità più grandi dell’autore, Pierluigi Vito. Che ha costruito un testo rigoroso nel racconto, nel linguaggio usato, nella ricostruzione delle vicende e nell’equilibrio tra livello narrativo e livello di riflessione. Perché questo libro non è solo un romanzo, non è solo un giallo, non è solo un insieme di vicende storiche. Ma è, soprattutto, una attenta riflessione su cosa significhi essere uomini, donne, comunità; su cosa significhi il dolore e i suoi contraccolpi sulla vita degli esseri umani; su cosa sia l’anelito alla giustizia piccola e grande; su cosa sia l’impossibile tentativo di pareggiare i conti quando la vita ci ha tolto ciò che più amavamo.
E in questo teatro, la scrittura di Pierluigi Vito ci accompagna con una puntualità che non è solo descrittiva ma anche narrativa ed evocativa. Tra le citazioni latine del parroco, i versi delle canzoni di Edith Piaf, i dialoghi tra parroco e maresciallo, siamo condotti all’interno di un quadro storico difficile, presi per mano da personaggi molto ben costruiti perché raccontati in tutta la loro complessità.
Uno spaccato umano prima ancora che storico. Un piccolo paese che, proprio alla luce del racconto, ci si accorge che, poi, tanto marginale non è. Perché, forse, nessuno è marginale. Nessuna storia è secondaria. Ogni persona è portatrice di un suo personale capitolo, all’interno di un libro.
Davvero un testo che si intuisce come abbia richiesto un lungo lavoro e, probabilmente, non pochi tormenti, pensieri e riflessioni. E in un’epoca in cui, molti libri paiono nascere da una scrittura che sembra avere come massima visione quella che porta all’ombelico di chi li scrive, questo “Quelli che stanno nelle tenebre” regala un respiro molto lungo. E non è cosa da poco per un testo letterario. Da leggere assolutamente.
Robin Edizioni
2016
383