Vivere in una terra desolata
Di Geraldine Meyer
Trentanove donne sono rinchiuse in un bunker sotterraneo. Non si sa cosa sia successo a loro e al mondo. Con loro la quarantesima donna. Sempre in disparte. Lei era poco più che neonata quando è accaduto quello che è accaduto. Mentre le altre hanno vaghi ricordi del mondo di prima, lei no. Non lo ha conosciuto e non ha conosciuto gli uomini. E forse proprio per questo diventerà la pietra d’angolo quando, per motivi altrettanto sconosciuti, le feroci guardie che le sorvegliano spariranno e le donne potranno fuggire. Per ritrovarsi in un mondo desolato. In cui, però, caparbiamente vivranno ancora per molti anni. Soprattutto grazie a lei. Cosa tiene in vita gli esseri umani quando sembra che non ci sia nessun motivo per farlo?
Io che non ho conosciuto gli uomini, di Jacqueline Harpman, è un romanzo che, la solita smania classificatoria, definirebbe distopico, postapocalittico. Prendiamo per buon questo ultimo termine ma intendiamolo per quello che è: una rivelazione. Ciò che si rivela è la indistruttibile e irriducibile forza della vita. La ragazzina protagonista, chiamata dalle altre donne semplicemente “la piccolina” è la personificazione di questa vita. E non solo perché da lei partirà tutto ma, ancor più, perché sarà la testimone di come la vita stessa sia, tra tantissime altre cose, proprio la capacità di adeguarsi e sintonizzarsi su ciò che appare (ed è) insensato. Sarà proprio la sua mancanza di ricordi del mondo di prima, la sua impossibilità di dare un nome alle cose (perché le cose lei non le ha conosciute, quindi come può sapere che una scala è una scala) che le consente di non fermarsi, di non fare confronti, di non restare impantanata nel confronto tra ciò che era e c’era prima e ciò che non è e non c’è più. “La piccolina” resta sulla soglia del già e non ancora. Per questo trascinerà le sue compagne in un cammino che sembra folle, in un mondo in cui non c’è più nulla, solo altri sotterranei pieni di cadaveri. Perché solo queste donne sono sopravvissute. Perché? Non lo sappiamo, come non sappiamo perché e da chi fossero state tenute in vita per tantissimi anni, senza motivo. Solo per stare in gabbia.
Una poesia di Chandra Candiani, nella raccolta Questo immenso non sapere, dice
Una buona pratica preliminare di qualunque altra è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura.
Ecco, questo è un po’ quello che fa quella giovane donna. Non sa, non ha molti dei concetti con cui, le altre, hanno vissuto. Non ha neanche bisogno di esercitarsi a non sapere. Però pensa. E induce le altre a farlo. E a vivere comunque, anche in un mondo desolato. Sarà la loro, in ogni caso, una comunità. Con le differenze e le affinità che ci sono nelle comunità umane. Dopo anni e anni di cattività questo gruppo di donne, grazie alla piccolina, troverà comunque un motivo per andare avanti. Interrogandosi. Anche sul concetto di libertà: è bastato uscire dal bunker per essere libere? Cosa fa di un essere umano un essere umano? Che cos’è quel nucleo indistruttibile che non smette di farci vivere?
Come la Harpman fa dire alla sua protagonista, che è anche autrice di questa testimonianza che lei lascia ai posteri, sicura che qualcuno leggerà
“Per parecchio tempo le giornate si sono svolte in modo simile. Poi ho cominciato a pensare, e tutto è cambiato.”
Letteratura
Blackie Edizioni
2024
175 p., rilegato