Marcello Chinca ha svolto la professione di avvocato per venti anni sino al suo ritiro nel 2007. Svolge ora l'attività di critico letterario e d'arte. Scrittore

La pantera

Di Marcello Chinca

Marina completamente nuda, vestiti e scarpe in mano, si era ostinata in un’ulteriore perlustrazione della zona. Infine s’adeguò a sedersi sul rialzo erboso che lui aveva scelto da tempo sotto un’abete secolare nel sentore deciso e pungente dei rocchi di finocchio selvatico. Lui era ancora vestito, in piedi, scrutando nel buio fitto della collina, in direzione dei pini alti prospicienti l’edificio del Comando dei vigili urbani in apparente disuso, quando proprio lì, separato soltanto da questa serie di pini e dalla rete di recinzione, si profilò un’ombra impalpabile: un essere abnorme perdio li stava osservando coi suoi occhi luminescenti verdi bottiglia. 

Lui riuscì a scorgerne solo quegli occhi verdastri scintillare nell’oscurità, immobili, quasi senza vita, puntati su di loro. Qell’essere pareva davvero un grosso leopardo, lo stesso muso astuto, le orecchie in alto, il cranio maestoso, quel senso intuibile di incalcolabile astuzia, quella blandizie che lui riusciva ad intuire e che l’animale pareva simulare benissimo nella sua immobilità perfetta con cui si confondeva tra i vivi.

D’un tratto sparì, si smaterializzò, dissolto nel silenzio di una notte d’estate rotta dal cicaleccio continuo di decine di cicale e grilli, lì sopra quella collina sopra la Cristoforo Colombo, sparì, come se non fosse mai esistito, quasi si fosse trattato in realtà di un miraggio.

‘C’è una bestia qui e non credo si tratti di un cane, anche se potrebbe esserlo’ mormorò lui con voce trepida.

“Ma che dici?” “M’intendo di cani, lo sai, ma ciò che ho visto proprio davanti a te non era assolutamente un cane, rivestiti Marina, per favore, in fretta” Lei si rizzò a sedere, si coprì con l’avambraccio i seni minuti, scrutando nel punto che lui le stava indicando con la mano.

Scrutarono nell’oscurità, nel silenzio perfetto della notte, riuscivano a sentirsi a vicenda i loro respiri agitati più del solito, come se in tutta quell’attenzione del loro scrutare potesse affiorare un responso ai loro rispettivi terrori.

Lui stava tremando in tutto il corpo, raggelato, convinto che la bestia fosse ancora lì da qualche parte a fissarli, pronto ad assalirli, comprese anche che stava contagiando di paura Marina col suo silenzio ostinato, con la sua attenzione catalizzatrice. Lei che era una studiosa dell’Hindi e del Sanscrito, s’alzò di scatto e con tono imperioso urlò un anatema Sanscrito, lo stridore della sua voce echeggiò terribile contro l’anfiteatro dell’edificio.

Marina Caliendo ripetè una seconda volta lo scongiuro con lo stesso impeto. Lui era paralizzato dal terrore e da un senso di scandalo.

“Cosa diavolo stai urlando?”

“Gli sto dicendo di ritornarsene nel suo Regno” 

“Perchè secondo te è il Demonio?”

Lei non rispose, lo fissò senza battere ciglio.

“Ho solo detto che si tratta di una bestia”  proseguì lui.

“E tu sai chi è la Bestia?” ribatté lei già con un tono impermalosito.

“SSSSSS” gli intimò lei.

D’un tratto, rieccolo, vicino alla recinzione, non si poteva dire se fosse al di qua o al di là della rete, tanto era indistinguibile nell’oscurità tra il fogliame e l’ombra dei pini, ma ora era perfettamente delineato nella sua massa muscolare, la sua forma nera si stagliava ora netta nello sfrangiarsi di luci ed ombre. Stupiva di quell’animale la perfetta immobilità, quasi tutto in lui fosse refrattario alla vista o che per pudore non potesse farsi vedere completamente. I suoi occhi balenavano senza mia accigliarsi.

“Non è un cane vedi?” si confermò lui.

“Lo vedo, ci sta fissando, adesso se ne andrà, vedrai”

L’animale infatti sparì dalla vista, come avesse ubbidito alla sua sollecitazione. Le foglie frusciavano nella brezza sopra i loro crani. La luna piena li illuminò tra i rami, erano stranamente incapaci di muoversi, lei nuda seduta con le braccia attorno alle ginocchia, lui vestito in piedi. Ora lui sondava la sua memoria, voleva ricordare: già ora rammentava la coda del felino quando sparì col suo balzo felpato. Quella coda nera potente e nervosa, già!

Una pantera, una pantera, certo! Una pantera nel centro di Roma! Forse quella stessa fuggita dallo zoo e latitante da anni di cui a volte i quotidiani segnalavano la presenza qua e là nella campagna romana. Avvistamenti cui le gente non sapeva se credere o meno. Non era una leggenda, la pantera esisteva, libera e ineffabile, orgogliosa. Loro ne erano stati testimoni!

L’immagine di copertina è presa da animali.net