Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

A short story of falling – Acqua chiusa di Dario Voltolini

Di Rossella Pretto

«E così tutto cade».

Si parte da qui a leggere il libro di Dario Voltolini, Acqua chiusa (Oligo Editore, 2024) accolto nella collana Ronzinante diretta da Marino Magliani, con prefazione di Alice Pisu e i disegni dello stesso autore.

Si parte da un punto preciso da cui, man mano, si apre l’ottica della macchina che guarda e filma: un muro lungo e un quartiere industriale e operaio dismesso che a tutta prima appare come un mostro sputafuoco e subito dopo si spegne raggelandosi nella sua dimensione di resto muto.

Non c’è più nulla, qui.

Resistono gli edifici: gli scarti, quelle rovine documentano una vita precedente, un passaggio di cui però non rimane alcunché, qualche sprazzo di memoria – sì – ma come attutita, resa inerte, fatta a fette.

Rimane ciò che tende all’indifferente, perché i motivi che ne hanno guidato l’edificazione sono caduti anche loro.

Devi stare attenta, qui – ti sei detta e ti ripeti – qui dove il terreno è sdrucciolevole come il marciapiede che percorre il viandante di spalle – «granuloso, mai asfaltato» – perché, qui, anche l’aria fa fatica – «il dopolavoro non è ancora caduto, l’aria che contengono i suoi spazi invece sì» –, è inverno, un lontano inverno (forse anche il tempo è caduto?), dopo il tramonto.

Che cosa c’è dopo il tramonto?

Una lunga, lunga notte dell’indefinito dove i motivi cadono e restano rottami abbandonati – i rifiuti eliotiani dopo che le ninfe sono partite, ma forse addirittura peggio, molto peggio, perché quei rifiuti sulla riva del Tamigi trattenevano ancora tracce organiche – e qui, di organico, vivo, ancora pulsante, non c’è proprio niente: si assiste a una sottrazione totale, asfissiante. Nessuna vita, nessun volto: è il regno della morte, di ciò che la morte si è lasciata dietro.

E allora devi stare attenta, tu che giochi in un mondo in cui la vita intrama la morte, in cui lo spazio è molto pieno. E ti dici: accantona la vecchia signora che ti possiede per adattarti all’immaginario postmoderno fatto di vuoti, che guarda da orbite vacanti e nel petto ha solo indizi di ossi.

C’è un viandante che «non esiste più da molto tempo». E che cos’è questo corpo freddo, chi è quell’immagine? Perché no, non è un corpo, è interferenza figurativa che tende però all’astratto, ectoplasma senza realtà che va a sparire, va a nero come le dissolvenze dei film. E come in un film è bidimensionale e non intessuta di emotività, organi, pelle. Ma si vede, a tratti, appare per qualche attimo. Forse è un viandante di cui abbiamo saputo qualcosa leggendo Invernale (finalista allo Strega 2024), qualcuno che è caduto da tempo e di cui permane un ricordo di questo tipo, che va incontro alla notte, dopo il tramonto ingrigito di tenebra, un uomo che percorre il lungo viale diritto e si perde, cade così, in maniera definitiva, stavolta scivola anche dalla mente (e se in Invernale il raffreddamento dell’emozione, deo gratias, aveva grandemente giovato alla narrazione allontanandola dal pericolo ombelicale che la morte di un padre porta con sé, qui il processo si compie fino alle sue estreme conseguenze).

Qui (o lì, nel quartiere industriale di Torino) viveva la famiglia del padre di Dario Voltolini – ci dice lui nel risvolto di copertina (e non avremmo potuto saperlo altrimenti, nessun dettaglio ce ne avrebbe informati).

E allora il viandante è il padre che attraversa ancora una volta le strade della sua origine? Potrebbe reggere ma poi no, rileggi e ti dici che te ne sei andata per la tangente e no, non stai più leggendo Acqua chiusa. Allora cos’è, chi è quel testimone? Solo una figura del caso che potrebbe (potrebbe e così è, ma come eventualità) sfiorare i destini dei morti («un’erranza manganelliana senza rimedio» scrive Alice Pisu), ombra tra le ombre di chi è transitato da qui, dal quartiere torinese con i tetti a testa di drago, le vie asfaltate deserte, un fiume grigio come creta, un ponte, il dopolavoro, il bar che serve agli operai non sfilatini ma «biovoni» (termine che scopri, come «bealera»), biovoni foderati di «acciughe spesse come sgombri», la trattoria, le industrie pesanti eccetera eccetera eccetera; qui dove lo smantellamento ha lasciato un cratere dentro cui è collassato il tempo, così che il presente si affaccia a inglobarne i resti sfatti e inspiegabili: un centro commerciale e un nuovo polo in lontananza dove «tutto è eco, ma niente è logico» scrive Voltolini. E prima aveva detto: «Possiamo in tutta coscienza preferire quel tempo, il tempo del caucciù e delle mescole e degli stampi, a questo? Relativamente al genius loci, sì».

I resti sono inspiegabili, o quasi – solo per un istante si mostrano le immagini di chi li ha intersecati (da un oggetto emerge un ricordo – scialbo, però, come visto da sotto quell’acqua chiusa dove i ragazzini si tuffavano rimanendo per poco preda del silenzio, gli occhi aperti sul freddo di immagini indistinte di un colore neutro grigioblu -; da una parola risale una memoria: le fette di un prodotto fatto in fabbrica richiamano le fette di polenta, una bici che passa sul corso riesuma il ciclista tedesco che salvò uno dei Figli da una bomba alleata). Inspiegabili sono i resti, come certi passaggi, come l’inconsistenza dei viandanti: «Nella sera d’inverno solo il viandante e gli altri viandanti maschi, che non c’erano» – vedi che non c’erano? Oppure si incontrano piccoli rebus che mettono in scacco la mente: «La casa era l’unica della via, ma il suo numero civico non era (tuttora non è) 1».

I conti non tornano e tutto cade, continua a cadere.

È una storia di caduta – pensi alle foglie e alle generazioni o alla «story of the falling rain / that rises to the light and fall again» di Alice Oswald – che dal fuoco dell’antro infernale della fabbrica chiude sul corpo/volto del viandante sfigurato da un incendio. Il fuoco che corrode e lascia il vuoto.

Seguendo la parabola dei disegni fatti dall’autore, si passa dai primi molto definiti e geometrici, disegni tecnici, all’indistinzione del finale. Dopo il dettaglio della chiusa sul fiume (con il suo ingranaggio), il tratto preciso cede il posto a una linea più mossa, futurista (con il viandante di spalle), che va a sbozzare la casa sul corso di quella tal famiglia, un condominio/astronave che sembra vagare nello spazio nero e finire in uno squarcio – appare aperto da un acido –, uno squarcio nel tessuto dell’oscurità in cui si intravede – quasi non più – il viandante, rigorosamente di spalle e preso – credi – dal disegno che lo raffigura in movimento mentre ancora percorre quella via infinita per un infinito tempo.

Ma paradossalmente tutto finisce lì, in quel fuoco, in quell’acqua che si richiude, in un nuovo che avanza senza senso, a sovrapposizione; in un vecchio che cede e cede ancora.

Cade, come la parabola di un idiota.

Insignificante – sì – ma che non si può non ripetere.

Acqua chiusa Book Cover Acqua chiusa
Ronzinante
Dario Voltolini
Letteratura
Oligo
2024
52 p., Ill, brossura