Le nostre anime di notte di Kent Haruf è un libro con sprazzi di poesia potenti. Come potente sa essere la vita, quando meno te lo aspetti, quando lasci che si insinui nei pertugi rimasti incustoditi dalla paura di non fare la cosa giusta. Questo libro è solo apparentemente un libro sulla vecchiaia, indubbiamente presente, ma è soprattutto un libro sull’urgenza, sul tempo. Sul fare qualcosa prima che sia troppo tardi, sul non poterla fare più e sul chiedersi se sarà possibile farla ancora.
Nell’immaginaria città di Holt, due anziani vedovi, Louis e Addie, scoprono quanto si posa essere e sentirsi davvero vicini dopo un’intera vita trascorsa quasi non avendo avuto a che fare l’uno con l’altro. La loro vita non scorre più secondo gli incombenti ritmi dettati da “quello che c’è da fare” e la meraviglia può essere annidata dietro l’angolo. E qualcosa accade. Accade quando Addie, così all’improvviso, si reca a casa di Louis per fargli una proposta: “vuoi passare le notti con me?” Non i giorni, non subito almeno. Le notti. Perché è di notte che tutto diventa più difficile e, nello stesso tempo, più delicato. Comincia così una storia di amicizia, di intimità, di vicinanza. Louise la sera, mette in un sacchetto di carta il suo pigiama, il suo spazzolino da denti e, tra il rumore della ghiaia dei sentieri lungo i giardini, la luce dei lampioni, si reca a casa di Addie. Si sdraiano così, l’uno vicino all’altro, raccontandosi le loro vite, i loro dolori, quello che avrebbero voluto e quello che hanno fatto.
Una trama di parole e di storie (splendidamente tradotte da Fabio Cremonesi) in cui vi è una sensualità sconosciuta a chi pensa che tra di loro vi debba essere, per forza, da subito, il sesso. La gente del paese, come è inevitabile che sia nei luoghi di provincia, viene a sapere di questi loro incontri notturni. E inizia la consueta girandola di morbosa curiosità. Ma Louis e Addie hanno raggiunto quell’età in cui è, appunto, l’urgenza, a prevalere su tutto. Noncurante delle chiacchiere, della mancanza di fantasia degli altri è l’urgenza di vivere che prevale. Di attimi fatti di una leggera e fortissima fame di raccontarsi, di ascoltare e di mettersi a nudo con qualcosa che sa essere più forte di un indumento levato: la parola.
C’è una fame di conoscersi, di tenersi per mano in quelli che, presumibilmente, saranno gli ultimi anni delle loro vite. E di farlo tra gentili schermaglie linguistiche, sorrisi, imbarazzi, silenzi, sguardi, rimpianti, sogni. Perché di notte, senza la violenza della luce che leva le sfumature, le anime riescono davvero a mettersi a nudo. Forti di tutto questo loro non dover più chiedere nulla Louis e Addie sconfineranno con la loro voglia di stare vicini anche nei giorni. Scoprendosi forse ancora capaci di amare soprattutto durante le settimane in cui James, il nipotino di Addie, vivrà con la nonna mentre i suoi genitori decidono cosa fare della loro vita e del loro matrimonio. Sono pagine memorabili quelle in cui i due anziani Louis e Addie partono per un paio di giorni in campeggio sulle montagne insieme al bambino. Sono pagine memorabili quelle in cui Louis accompagna il piccolo a prendere un cane che diventa la metafora di come, piano piano, l’amore, qualunque cosa esso sia, trova modo di insinuarsi nella vita delle persone.
I protagonisti di Le nostre anime nella notte si raccontano e raccontano a noi che non è mai troppo tardi per provare ad essere felici. Che le svolte della vita non sono esclusiva proprietà della giovinezza. Basta conquistare la consapevolezza di qualcosa che non è stato ma che, non necessariamente, deve essere perduto. Ma che, anzi, può venire riconquistato.
Ma niente è facile. Il figlio di Addie, non capisce, non accetta. Figlio di un passato ingombrante (la morte della sorellina, un padre che pare trovare un modo per andare avanti solo accusando lui di quanto accaduto) non può comprendere la decisione di sua madre. E interverrà con la protervia di chi è infelice. Quindi fragile e solo apparentemente crudele. Non è crudeltà la sua. Ma solo paura. Paura che la vita, rappresentata da sua madre, possa costringerlo a capire che la felicità deve essere una scelta. Ma la fine non ve la racconto.
Kent Haruf, morto tre anni fa, mette in questo libro la forza di una scrittura pulita, quasi scarna. Con l’efficacia di una semplicità che, sola, sa contenere tutta la complessità dell’esistenza, dei sentimenti, della loro forza e fragilità al contempo. Un libro semplice nel senso nobile della parola. Semplice e non facile. Perché la semplicità è proprio ciò che dimostra come le pieghe del plico non si possano appianare: sem-plectere, piegare una sola volta. Questa l’etimologia della parola “semplice”. E questa, secondo me, la chiave di lettura di questo capolavoro. Perché di capolavoro stiamo parlando.
Narrativa
NNE
2017