Continuiamo a pubblicare i racconti di Manuela Iaconella che, ne siamo certi, diventeranno un libro. Ecco oggi un racconto dedicato al nonno e a una Roma che andava cambiando la sua urbanistica. Per leggere il primo racconto di Manuela, cliccate qui
Nonno Giggi e la trasformazione urbana della Roma anni ’50-’60. Il libro in fieri di Emanuela Iacolenna
Il centro storico di Roma era sempre lì, bello e imperturbabile, con i suoi palazzi storici, il suo via vai di gente e di politici. Ma dopo la guerra, nelle periferie, dalla Via Appia alla Tuscolana, dalla Salaria alla Via Nomentana, via via cominciarono a sorgere quartieri nuovi, che accerchiavano le ultime case rurali dei tempi passati. Noi abitavamo in un quartiere vicino a Monteverde Vecchio, noto per il Gianicolo, Villa Sciarra e il mitico fontanone di vacanze Romane. Intorno agli anni ’20, nella zona adiacente a Monteverde Vecchio, Mussolini destinò molti lotti di terreno agli insegnanti statali. Funzionava così: lui concedeva il terreno e i proprietari si impegnavano, antro due anni. Nacque così il quartiere di Monteverdi Nuovo, con tutti i suoi villini e con la Via Portuense a far da confine. Confine che fu delimitato da tre grandi ospedali, il San Camillo, il Forlanini e lo Spallanzani. Tutti sorti sopra una grande porzione di pineta mediterranea, adiacente alla via che, come dice il nome Portuense, portava e porta ancora al porto di Fiumicino. Per organizzare la grandiosa cerimonia della posa della prima pietra, Mussolini fece setacciare tutte le scuole, alla ricerca di una bambina il più corrispondente possibile a quella che veniva chiamata “razza ariana”. Fu scelta mia madre che, così piccola, non conservò poi nessun ricordo di questo episodio. Neppure i miei nonni che, non avendo gradito l’imposizione, fecero di quel fatto qualcosa da dimenticare.
In quel periodo, proprio in quei giorni anzi, i nonni vivevano in una piccola e modesta casa che venne demolita per fare spazio agli ospedali. Mio nonno era muratore e lavorava come capomastro alla costruzione di una palazzina di tre piani che un signore ebreo aveva commissionato per sé e per i suoi due figli. Gli eventi però andavano precipitando sempre più e quel signore non si sentiva più al sicuro. Decise così di far ritorno in Palestina, lasciando a mio nonno l’incarico di dividere ogni piano in due appartamenti. Nonno avrebbe dovuto abitarne uno come custode e manutentore, mentre gli altri avrebbero dovuto andare in affitto. Ma in seguito, con il matrimonio dei figli, nonno chiese per sé un intero piano.
Quel progetto edilizio era molto avanzato per l’epoca. La casa presentava differenze di costruzione che, in un certo senso, sono le stesse che oggi si potrebbero trovare tra una normale costruzione e una casa ecosostenibile. Fu così che, mi piace pensare, io anni dopo nacqui in una casa “futurista”. C’erano i termosifoni alimentati da una caldaia a carbone che si trovava in cantina. Ogni mese arrivava un furgone e alcuni uomini coperti interamente di un sacco fin sopra la testa, scaricavano carbone dentro una finestrella situata nel cortile e collegata direttamente con il deposito in cantina. Noi bambini restavamo fermi e silenziosi ad osservare quel rito, con un po’ di timore, di fronte a quegli uomini seri, neri in volto dalla fuliggine e piegati per il peso dei grossi sacchi.
La caldaia produceva anche acqua calda che usciva direttamente da tutti i rubinetti della casa. Ora è cosa normale ma, allora, non era così scontata. Però, siccome non c’erano i miscelatori, dovevamo tappare il lavandino, far uscire un po’ d’acqua calda, un po’ fredda e poi lavarci. Nei bagni c’erano magnifiche vasche di metallo smaltato, con le zampe di leone ma siccome l’acqua, ci veniva spiegato, era un bene prezioso che serviva per tante cose, il bagno si poteva fare solo il sabato. Ricordo che per farci capire l’importanza dell’acqua nonno ci portava sulla terrazza dello stabile su cui si trovavano due grandi vasche; una prendeva l’acqua proveniente dall’acquedotto e l’altra recuperava quella piovana. Ci faceva poi seguire il percorso dei tubi, quelli che andavano negli appartamenti e quelli che finivano in giardino e nell’orto e ci diceva: “ Senza acqua non mangerete né pomodori né albicocche.”
Così il sabato diventava “il rito del bagno”. Veloci e in fila, ciascuno con il suo fagottello di biancheria pulita respiravamo l’aria che odorava di borotalco preparando, vicino ai letti, gli abiti della domenica con i quali ci saremmo recati prima a messa, poi all’oratorio e infine, con papà e mamma, in pasticceria per il classico vassoio di paste. Vassoio che, a tavola, nei giorni di festa non doveva mai mancare. Di cucine in casa ce n’erano due; nella più grande c’era la ghiacciaia, un grosso armadio di legno con dentro le barre di ghiaccio che, come il carbone, venivano consegnate a casa. Ma gli uomini del ghiaccio erano puliti e sorridenti. Tranne che in inverno.
Il telefono era nera, appeso alla parete nel corridoio centrale della casa. Il suo filo correva su tutto il muro ed era di stoffa, si attorcigliava su sé stesso, formando un cordone simile a quello che portavano le donne sui vestiti eleganti. Quando squillava tutti correvano e anche se non arrivavi primo, rimanevi ad ascoltare la telefonata. Ma non era un problema. Non esisteva la privacy e quasi nessuno aveva segreti (forse).
Mio nonno muratore aveva studiato come autodidatta da geometra e, un po’ per la sua intelligenza, un po’ per l’esperienza, era molto richiesto dai geometri ufficiali. Alcuni non alzavano neppure un muretto se nonno Giggi non lo aveva prima controllato. Il quartiere era ancora in espansione e andava assumendo una connotazione sempre più importante perché, nel 1960, si sarebbero svolti i giochi olimpici. E siccome in Italia ci si prepara sempre per tempo, già dal 1957 iniziarono i lavori per una gigantesca strada (così almeno appariva allora) la Via Olimpica che dal Foro Italico tagliava in due il quartiere per collegare il centro di Roma allo stadio Olimpico.
In ragione di queste opere, furono spazzati via gli ultimi ricordi della guerra, le “casermette” ancora abitate dagli ultimi sfollati. Erano una sorta di baracche in muratura ormai in degrado e confinanti con le case di “Donna Olimpia” di cui parlò tanto Pasolini. Io ho ricordi appannati di quei luoghi, ricordo che stringevamo forte la mano di mia madre quando passavamo lì vicino, sentivo dire che era pericoloso. Nei dintorni di questa via Olimpia, durante la realizzazione, oltre al disagio immaginabile, spuntavano palazzine nuove e le case storiche cercavano almeno di rifarsi il trucco. Un amico di mio nonno decise appunto di costruire proprio ai margini di questa strada. E come tanti potò il progetto a mio nonno per avere un parere. Nonno lo esaminò attentamente poi spiegò che il palazzo non avrebbe retto. Ma Gino, l’amico, nonostante i ripetuti consigli di nonno Giggi, volle costruire a tutti i costi il palazzo così come lo aveva progettato e così come nonno Giggi lo aveva sconsigliato. Mio nonno andò all’inaugurazione sorridente e allegro ma, tornando a casa, ripeté a mia nonna: “Palmira, quel palazzo non reggerà.” Nonno Giggi non visse a lungo, non abbastanza per vedere ciò che vidi io: il crollo di quel palazzo poco distante da noi. Fortunatamente il cedimento diede prima segnali inconfondibili che riportarono alla mente i consigli del nonno e consentirono di sgomberare il palazzo prima che il crollo diventasse una vera tragedia.
Nonno Giggi era un uomo grosso, mite e sorridente. Una specie di Babbo natale che, come un vero Babbo Natale, sapeva fare le magie in ogni angolo della casa. Dall’orto ai giocattoli, dai lavandini alla moto di mio padre, ogni inconveniente veniva risolto dalle sue mani magiche. Anche quando una emorragia cerebrale paralizzò tutta la parte destra del suo corpo, lui non si arrese. Tutte le sere guardava in tv la trasmissione del maestro Manzi “Non è mai troppo tardi”. Diceva che doveva tenere allenato il cervello e imparare a usare la mano sinistra anche per scrivere. Di lì a poca, con la mano sinistra ci lasciò l’ultimo ricordo d’amore per noi e per la vita: un salotto di legno per l’angolo più bello del giardino.
La sua scomparsa portò in tutti noi un senso di disorientamento e inadeguatezza. La perdita di quel pilastro, di quell’uomo al quale tutti noi chiedevamo consigli e aiuto, ci lasciò senza fiato. Quell’uomo che, al ritorno dal lavoro aveva una sola pretesa: quella di trovare tutti i suoi nipoti sporchi della terra del giardino perché, diceva, così riusciva a percepire meglio l’allegria dei nostri giochi. L’autunno scese sul nostro giardino e sulla nostra famiglia che, in silenzio, elaborava il lutto. Anche il televisore rimase per lo più silenzioso, in segno di rispetto. Ma la sera prendemmo spontaneamente l’abitudine di riunirci in tinello. Si conversava, ma si stava anche in silenzio, così, vicini, nella stanza più piccola della casa, aspettando che il corso della vita portasse una nuova primavera.
L’immagine di copertina è tratta dal bel sito portaleletterario.net