Un solo mese la rivoluzione ci prese. Pensieri sul maggio francese a cura di Matteo Moder.
Anche se ci crediamo assolti siamo lo stesso coinvolti. Nel millenovecentosessantotto, dal tre di maggio, per un mese Parigi brucia nel vento. Anticipata a marzo dall’occupazione della Facoltà di Lettere dell’Università di Nanterre, la rivolta francese monta a seguito di una riforma classista della scuola, promossa dal Ministro dell’Educazione Christian Fouchet. È la scintilla di un malcontento profondo e diffuso. Contro i padroni affamatori del popolo, contro le istituzioni vetuste, contro i costumi datati, contro l’assetto della produzione, contro i valori conservatori, contro la cultura borghese, contro l’autoritarismo, contro ogni guerra, contro il patriarcato, contro il servilismo. Si erigono barricate, si promuovono cortei, si organizzano scioperi partecipati: il tredici maggio ottocentomila persone sfilano per le strade della capitale francese bloccando la città.
Sono giorni di rabbia, di gioia, di guerriglia, di illusioni ingenue e feroci, di creatività espressa e poi repressa. Gli studenti universitari si alleano agli operai. L’Italia ha conosciuto gli scontri di Valle Giulia, in Germania il leader studentesco Rudi Dutschke è sfuggito a un attentato. Daniel Cohn-Bendit, detto Dany il Rosso, prende le redini del movimento d’Oltralpe. Il PCF e la CGT, rispettivamente il Partito Comunista e il sindacato comunista d’ispirazione, scavalcati a sinistra, si oppongono all’occupazione delle fabbriche. Il ventuno maggio in tutta la Francia gli scioperanti toccano il picco record di sette milioni. È l’inizio della fine. Il venticinque si contano i primi morti negli scontri. Scatta la reazione negativa nell’opinione pubblica, colta al volo dal presidente Charles De Gaulle, che scioglie l’Assemblea nazionale e indìce nuove elezioni per fine giugno. Le vince lui, il “grande asparago”, com’era soprannominato in gioventù. L’immaginazione non va al potere, la Quinta Repubblica è salva…
E tu Chi sei, nel maggio francese che durò solo un mese? Se lo chiedono, ce lo chiedono, Matteo Moder, geniale cantore-poeta-guastatore triestino testimone di storie, di Storia, e la band di Nina, allargata a compagni e compagne di estrazione varia, ancora, per fare una rima, agitati da passione rivoluzionaria. O quantomeno contestaria. O, si può dire?, illuminati dalla fiaccola proletaria. I nomi, i nomi! In ordine alfabetico-egualitario: Mauro Biani, Federica Bonzi, Riccardo Brizioli, Artemio Cavagna, Giancarlo Cavazzini, Marco Cinque, Silvana De Marco, Ginetta Maria Fino Di Cahors, Roberto Michelangelo Giordi, Luca Mozzachiodi, Elisabetta Rinoldi, Ugo Pierri, Massimo Pizzoglio, Licia Satirico, Giancarlo Sissa, Agata Tarantino. Filosofi, cantautori, poeti, scrittori, artisti, disegnatori, viandanti, esploratori, equilibristi della parola dai quattro, otto, sedici angoli d’Italia.
Durante la lettura di codeste testimonianze di interpreti del Sessantotto, prose, versi, riflessioni, note a margine, stralci di diari ex post vien da gridare: ah, bei giorni andati! Ah, quanta vana, svanita speranza! Mai, però, prende le redini la nostalgia vile e canaglia. Quanti di loro sono stati protagonisti diretti delle vicende del Maggio? Ben pochi. E allora? Allora il progetto è la rivisitazione di un clima, di un mondo, di un’atmosfera che si propaga e non è morta. Se invece, assumiamolo per vero, è morta, uccisa più da chi ne ha tratto giovamento (in lombardo, la cadrega, leggasi sedia, poltrona, posizione di comando negli anni tristi e mietitori a seguire) che dai nemici conclamati, significa che quel Mese, unico Mese, torna, qui, come un Sogno. Un Fantasma si aggira per le pagine. E’ il Sessantotto dei pugni chiusi e delle ferite aperte. We have a dream. E ora, se volete, sparateci pure.
Ogni stanza è illustrata da un magnifico manifesto dell’epoca, perché in quei giorni i manifesti erano davvero splendidi, irripetibili, sintesi stampate e strampalate di bi-sogni, tanto più aderenti al reale quanto più surreali. Immagini e parole d’ordine, lanciate oltre l’orizzonte degli eventi e in caduta libera su Parigi, città-palingenesi, spettro di un’altra Comune, frodata, fottuta, Parigi con le frasi scalcinate a ballare nude sui muri. Nel Maggio sessantottino tutto è scrittura, tutto è esposto, disposto ad abbracciare le regole di una nuova grammatica. Corri compagno, il vecchio mondo ti sta dietro. Ogni contributo individuale è ispirato a uno slogan e introdotto da una poesia di Matteo Moder, versi lievi, onirici e dilanianti, come solo il Maestro sa porre e comporre. Notare bene: l’individuale è collettivo e il privato, per definizione, pubblico. Ugo Pierri, alias Kuno Kohn, aedo del disincanto, spezza il ritmo con fulminanti intermezzi che ci riportano all’eziologia della sconfitta. In copertina, una Marianna disegnata da Mario Biani, vignettista de L’Espresso e de Il Manifesto, ci rammenta che La fantasia non deve andare al potere, c’è pericolo che poi faccia carriera. Pericolo e destino di molti, che per il posto fisso e l’ascesa ai cieli della dirigenza abiurarono alla fantasia. In chiusura è riportata la canzone del Maggio di Dominique Grange da cui rubò Fabrizio De Andrè… “Même si le mois de mai, / ne vous a guère touché, / même s’il n’y a pas eu, / de manif’ dans votre rue. / Même si votre voiture / n’a pas été incendiée, / même si vous vous en foutez, / chacun de vous est concerné”.
Quando, nel cinquantennio a venire, la società sarebbe stata scossa, ancora, dalle fondamenta? Riformulazione: in quale altra epoca il demone del capitalismo avrebbe temuto di essere scacciato da un esorcismo di massa? Eppure, ciò che deve accadere non accade. Sulla soglia di uno scardinamento totale, irrevocabile, tumultuoso, peccaminoso, ingiurioso, il mostro evita lo schianto e osserva i giubilanti rivoluzionari cedere e, molti, troppi, ri-piegarsi, ri-piagarsi, paghi di striminzite certezze. Mai, mai più il paradigma di sviluppo capitalistico avrebbe temuto per sé, e secondo alcuni, a guardare con il lume dell’onestà, nemmeno allora… La vida es sueño… E quindi, se il quadro è ingigantito, che esperienza hanno vissuto coloro che l’hanno vissuta? E cosa ne pensano coloro che non c’erano, ma ne hanno comunque saggiato il succo? Il Sessantotto, in questo volume, è insieme irreale, palpabile e presente nel suo scomparire. Lo slogan par excellence della rivolta, Siamo realisti, chiediamo l’impossibile, è chiosato da un appunto moderiano, compagne siamo realiste chiediamo la reversibile… Parodia, traduzione, declinazione attuale del verbo inattuale di una rivoluzione abortita.
Chi sei. Starci, pesarsi nell’istante storico, che accade. Chi sei nel Maggio francese? Qualcuno sa di un altrove ove ella non è: “la mia è una rivoluzione soggettiva, che inserisce note eversive permanenti in una vita quanto mai borghese… Non rimpiango le vite che non ho vissuto, né penso a quelle che potrei vivere. La vita è altrove, ed è molto meglio così”, scrive Licia Satirico. Qualcun altro, Massimo Pizzoglio, ricorda un paio di lampadine gialle, che il padre sostituiva “a quelle bianche abituali, appena passata la frontiera francese. Le routes nationales erano allora da suicidio, carreggiata unica a tre corsie, una per senso di marcia e quella centrale per il sorpasso… di entrambe le direzioni!”, segno di una Francia lontana dalla modernità, investita da un’ondata di impegno collettivo che l’avrebbe trasformata, sebbene non posseduta. “La mia solitaria ribellione”, aggiunge da par suo Silvana De Marco, allora giovane impiegata alla Arbos fabbrica di mietitrebbie, “era quella di andare in mensa e mangiare nei tavoli riservati agli operai”. Artemio Cavagna nel Sessantotto viveva e lavorava a Parigi, e afferma che la “magia del vivere negli anni ‘60 era sostenuta da un’autentica speranza nella politica nel potere dell’immaginazione e in tutto quanto poteva riservarci il futuro che si presentava luminoso e per me emozionante”. In fondo, rimugina Riccardo Brizioli, “il potere del potere è incosciente e apparente. Solo la nostra credulità lo rende reale”, mentre Giancarlo Cavazzini giudica “fantastica, or dunque, la fantasia quand’essa vuole conseguire la sommità del cosiddetto potere, ma così facendo, non si accorge di avvilupparsi in un estricabile ossimoro”. Come coniugare il razionale all’irrazionale? Necessitiamo di un vocabolario nuovo e di un ventaglio di segni e simboli che restituisca significato all’esistenza, alla vita offesa, perché le parole, ammonisce Federica Bonzi, “sono innocenti ma perdono la loro neutralità nello stesso istante in cui le scriviamo, nell’istante in cui le poniamo in una frase, proprio in quel posto e non in un altro”. Da quanto tempo le vuote parole della routine ci strangolano? Quando abbiamo perso l’abilità di liberarci dal cappio?
O forse vi è un codice di comunicazione segreto, cui attingere, per edificare un’alternativa all’esistente, come ci assicura Elisabetta Rinoldi? “Amore, com’era dolce / parlare lo stesso linguaggio / senza parlare / e le parole sembravano un mare / dall’alto lignaggio, / silenzi carezze lotta e coraggio / i nostri punti cardinali”. Un catalogo sentimentale di complementi d’argomento è una plausibile risposta logica al dominio dell’illogico. Ne compila uno Giancarlo Sissa: “del diritto di ridere in faccia ai bugiardi… dello scoprire il nome che nessuno porta… del tornare là dove si aveva diritto che non ci facessero del male…”, per resistere, per insistere, per spostare più in là la recisione ultima delle radici paventata da Marco Cinque, “quando le residue memorie / soffocheranno nel triste silenzio / sarà seppellita ogni traccia di verità”. C’è chi si inerpica nel bosco, metaforico e non, dei ricordi, chiedendosi se sia la storia, questa invadente luce “scoccata tra il verde dei castagni”, finché, a infrangere il silenzio di una quiete patrizia, e a sollevare le liriche di Luca Mozzachiodi, “arrivano le grida, / anche qui gli anni maturano in quiete il proprio frutto”. C’è chi parla sempre di Francia e ribalta terra morta, fieno e lenzuola su una collina di maggio, dove la “piccola non tanto piccola”, incastrata da Ginetta Maria Fino in uno spazio lirico-agreste di contestazione, “sputò l’ostia, piantò il dio non bono e se ne stette a guardare dove il compagno baffuto indicherà l’anno dopo”. E poi, c’è chi richiama l’esperimento effimero e sfortunato della Repubblica giacobina a Napoli, Michele Angelo Giordi, in missione nel tempo, anno 1799, quando “un grande buco nero prese forma su nel cielo / reliquie, santi, peccatori, tutto inghiottì / nemmeno i giacobini raggirarono il disastro / in culo ai motti e alle fanfare tutto poi finì”.
Chi sei dopo il millenovecentosessantotto? “Al giudizio finale avranno assicurato il passaporto / i traditori di quella primavera” scrive Kuno Kuhn, alias Ugo Pierri. E Agata Tarantino ci riporta al mediocre, mediocrissimo presente: “è l’era virtuale dei veleni e dei razzismi… un tempo in cui i politici lanciano messaggi che incitano impunemente all’odio razziale che si beano di avere compagne stiranti e contente”. L’emancipazione dalle catene del quotidiano, il desiderio di una libertà più larga, le lotte per l’eguaglianza sociale, tutto ciò che fine ha fatto? In quale precipizio riposano le battaglie? E quegli uomini e quelle donne, in piedi sulle barricate… Sconfessati? Convertiti? Scomunicati? Anni lontanissimi, nascosti sotto la scorza del benessere/malessere individuale, schiacciati nel mortaio dell’oblio, panni lavati in famiglia e stesi al sole in occasione di un anniversario che secondo molti è una ricorrenza inutile. Una rilettura dei fatti, degli slanci ideali, degli snodi concettuali tuttora problematici, degli errori macroscopici, delle contraddizioni esplose nei versi di P.P. Pasolini, è invece opportuna, soprattutto oggi, nell’epoca della diseguaglianza massima tra chi ha molto e chi è confinato ad avere quasi niente, in cui il Sistema economico “così com’è” è elevato a dogma da sedicenti studiosi di varie scuole, dal liberismo spinto al riformismo cauto, e il seme della rivolta identitaria germoglia, oscenamente, a destra. Non aveva forse ragione, il filosofo Walter Benjamin, nel dire che “ogni ascesa del fascismo reca con sé la testimonianza di una rivoluzione fallita”?
Ai disperati vincenti perdenti inveccchiati bene invecchiati male che hanno ancora un po’ di sale in zucca senza parrucca con l’anima che fa sempre un botto se piangono se ridono sui tanti ‘68 / Ai felici pochi pochi piccoli fuochi accesi nonostante gli anni spesi, e giochi di anime giochi di bambini coi capelli bianchi dalla parte del torto sì ma mai stanchi, io ti voglio bene avanti avanti… Questi versi automatici, lirici, emblematici, sono posti da Matteo Moder a mo’ di postfazione e li assumo anch’io, a mò di conclusione inconclusa. Resta nel lettore un’impronta, tu chiamala se vuoi “gentilezza scontrosa”. Una lode speciale va al Battello Stampatore di Trieste, casa editrice custode di Intelligenza e di Memorie. Avanti, avanti!
Alessandro Vergari
(Chi sei nel maggio francese che durò solo un mese, a cura di Matteo Moder, Il Battello Stampatore, Trieste, 2018, € 12,00)
Saggistica
Battello Stampatore
2018
112 ill.