Stefano Liberti, I signori del Cibo, Minimum Fax 2016
Il sottotitolo di questo inquieto ed inquietante reportage di Stefano Liberti: Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta, non lascia spazio ad alcuna ambivalenza di lettura. Il messaggio primo ed ultimo del libro è che l’industria alimentare sia il Male con tutto il contesto di effetti collaterali ad essa correlati quali l’inquinamento, il consumo irrazionale di energia, la degradazione delle risorse, la standardizzazione del gusto, gli effetti negativi del cibo di sintesi sulla salute. Abbastanza prevedibile sarà la replica di chi sostiene le ragioni “sacrosante” dell’industria alimentare che “permette di sfamare quanta più gente possibile in giro per il mondo, offrendo un accesso più esteso e più democratico al cibo per tutti.” Premesso che andrebbero filtrate al colino del buon senso anche queste “sacrosante e democratiche ragioni”, la cosa che più fa specie in tematiche di così complicata risoluzione quali l’agribusiness, il cibo e la sua produzione su scala industriale, è esattamente il fatto che questo saggio sconcertante di Liberti pubblicato nel 2016, oggi a febbraio 2019, a distanza cioè di soli 3 anni è già archeologia bibliografica nella misura in cui il tempo scorre più veloce della luce, mentre la dominazione predace delle elefantesche Corporation alimentari se ne fa un baffo di tutti i gridolini di dissenso come di tutte le preoccupazioni ipocondriache allertate da una nicchia di privilegiati nevrotici che fanno rilevare l’influsso malsano causato dalla tecno-industrializzazione dell’agricoltura e dall’allevamento seriale sulla salute pubblica o sulla sostenibilità dell’ambiente. La radiografia degli argomenti è chiarita fin da subito dall’indice del libro composto di 4 capitoli ben strutturati, ognuno dei quali dedicato appunto all’approfondimento d’inchiesta “sul luogo del delitto” dove originano i 4 macro-temi interconnessi alla filiera globalizzata della carne di maiale, della soia, del tonno e del pomodoro:
- L’impero del suino
- Soia senza frontiere
- Il mare in scatola
- Pulp fiction: nel labirinto del pomodoro
Possiamo considerare altresì I Signori del Cibo anche un libro di viaggio attorno al mondo. Un itinerario circolare asfissiante o meglio un vademecum nell’inferno planetario della produzione del cibo in batteria. Si parte dalla Cina di Shuanghui “il più grande trasformatore di carne suina al mondo”, passando a Smithfield nella Virginia occidentale. Si attraversa la Carolina del Nord, il Midwest e lo Iowa cioè la corn belt (fascia dei cereali) nota di conseguenza anche come swine belt (fascia dei suini) ovvero il cuore di tenebra pulsante degli Stati Uniti dove, al grido yankee ferino di Feeding America… Feeding the World, a pollizzazione ormai avvenuta, (chickenization della produzione suina), non si troverà più neppure un povero maiale pascolare liberamente in campagna ma “i suini saranno costretti a vivere a migliaia di migliaia in spazi angusti in cui vengono nutriti con un pappone di mais, soia e una serie di antibiotici e additivi vari, per farli crescere più rapidamente e al contempo evitare la diffusione di malattie dovuta alla loro concentrazione” Assieme allo sguardo lucido di Liberti, affrontiamo dunque a occhi cupi e mente sgombra un angoscioso giro intorno al mondo della produzione di cibo industriale che passa per la desolazione degli ecosistemi causata dalla monocoltura intensiva della soia in Mato Grosso all’estremo lato occidentale del Brasile, per approdare infine a Bermeo, un insignificante porticciolo, un antico villaggio di balenieri dei Paesi Baschi dove ha avuto origine la pesca europea del tonno tropicale con effetti sconvolgenti sull’armonia interna della biodiversità marina, per riapprodare ancora nella sterminata landa cinese dello Xinjiang a tremila chilometri da Pechino, regione che detiene il primato di maggiore coltivatore al mondo di un ortaggio tra i più diffusi: il pomodoro. Insomma un intrico schizofrenico di dispersioni paradossali. Un puzzle d’incastri e sprechi davvero diabolici quanto spregiudicati tra Cina Brasile America Galizia che hanno trasformato il bestiame in merce-oggetto allontanando in maniera irreversibile gli agricoltori dalla terra. Un perfido sistema integrato di carne-soia-fertilizzanti-farmaci progettato in laboratori di ricerca genetica e negli uffici finanziari per cui “la soia – originaria della Cina – viene prodotta in climi tropicali dall’altra parte del mondo per alimentare maiali in Cina che a loro volta sono originari di un’altra zona”. Nel capitolo 3, quello dedicato alla pesca intensiva del tonno, c’è una frase che non casualmente è al centro del libro e che ritengo sia anche il motivo centrale calzatissimo ad illustrare il circolo vizioso dell’industria alimentare sempre a rischio di distruggere le non inesauribili risorse naturali, a devastare gli equilibri fragili del nostro habitat vivente. È un tema di fondo che indica molto bene cioè il vicolo cieco di una produzione alimentare industriale insostenibile sia in prospettiva di crescita esponenziale che su scala più ridotta in quanto è un sistema produttivo ed economico disumano e disumanizzante abborracciato alla base su una classica truffa finanziaria da bar tipo lo schema Ponzi*. È un passo che mostra appieno l’entropia propagata della globalizzazione del mercato con tutto il corollario di contraddizioni spietate e le variabili senza soluzione di continuità scatenate dalla solita, implacabile legge della domanda e dell’offerta. “Questo sovraffollamento dei mari crea un ulteriore paradosso: più navi ci sono in giro più pescano, più il prezzo della materia prima diminuisce sul mercato internazionale, costringendo gli industriali a pescare ancora di più per rientrare nei costi”. Per chiudere, se prima ancora di essere sprofondati in questa lettura inquieta e inquietante eravamo affossati in un’impasse di ordine etico, politico e culturale sul da farsi come individui partecipi di una comunità diffusa, la comunità cioè di chi pretende un po’ presuntuosamente di nutrire il proprio spirito e la propria pancia con un certo bagaglio di cognizioni di causa, a lettura ultimata continueremo senz’altro ad affossare sempre nello stesso pantano merdoso d’angosce, d’ansie da prestazione sociale e d’indecisioni ma forse fortificati da una maggiore determinazione culturale, etica e politica. Una motivazione interiore istintiva più urgente si spera, circa il da farsi per il bene della nostra salute, per la custodia del patrimonio ambientale, per la difesa strenua di un cibo sempre più genuino, un cibo gustoso, nutritivo e soddisfacente frutto di un’agricoltura a misura definitivamente umana, la misura però generosa, comprensiva e lungimirante, non quella macchinosa e rapace dell’umano.
*Con tale espressione si indica una truffa finanziaria che prende il nome da Charles Ponzi, un immigrato italiano negli Stati Uniti che nei primi del Novecento aveva proposto a una serie di persone un investimento con altri ritorni basato sul nulla. Per garantire tali ritorni ai primi investitori, aveva coinvolto altre persone, in modo che i nuovi investimenti andassero a pagare gli interessi dei vecchi, in una specie di catena di sant’Antonio destinata a spezzarsi miseramente nel momento in cui le richieste di rimborso avrebbero superato i nuovi investimenti.
Gae Saccoccio
saggistica, reportage
minimum fax
2016
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