Di Francesco Piro
Prefazione a Maria Rosaria D’Acierno, Zanzibar and Germany in Sayyida Salmé, testo di prossima pubblicazione
I libri di Maria Rosaria D’Acierno percorrono strade inusuali e cruciali nel confronto tra culture e civilizzazioni. Si tratta di strade sulle quali l’autrice si inoltra spinta da una profonda sensibilità antropologica e filosofica: non vi è libro di questa studiosa in cui non siano richiamati i maestri che ne hanno ispirato la ricerca, dal filosofo del “patico” Aldo Masullo allo psichiatra-antropologo Sergio Piro. A quest’ultimo – mio padre – è dedicato in particolare il libro Music and Medicine from East to West: Ibn Sīnā – Sergio Piro (2012), libro che tocca un tema psicologico intricatissimo e oggi molto discusso – quello della funzione psicologica e, più specificamente, terapeutica della musica – confrontando due stili teorici nei quali questo problema è esplicitamente considerato e valorizzato, quello del grande Ibn Sīnā (tra i Latini, noto come Avicenna) e quello appunto dell’antropologia trasformazionale di Sergio Piro.
D’Acierno segue con competenza storica lo sviluppo della teoria della musica e del suo potere psicologico attraverso i grandi filosofi-scienziati del mondo islamico – al-Kindi, al-Farabi, lo stesso Avicenna – per mostrare come questi filosofi-scienziati riuscirono a modificare e migliorare l’eredità greca, aprirla a nuovi problemi. Fu un altissimo momento di scoperte e di esplosione del gusto per la ricerca empirica e per la conoscenza delle complessità del mondo umano. E qui mi permetto di aggiungere che effettivamente il caso di Avicenna è importante e singolare. La psicologia filosofica dei Latini conobbe Avicenna come un classificatore approfondito e un risistematore dell’eredità greca. La sua teoria filosofica dei “sensi interni” fece scuola e fu anche ritenuta – soprattutto nel periodo tardo-medievale – un esempio di scarsa parsimonia ontologica, il caso poco lodevole di una proliferazione eccessiva di homunculi ipotetici situati dentro il cervello.
Ma se andiamo a guardare il modo in cui la filosofia avicenniana usa e discute dei sensi interni ci accorgiamo che non contano tanto i singoli homunculi ipotizzati, quando le interazioni che Avicenna introduce tra sensibilità e conoscenza e che discute attraverso le collaborazioni tra i suoi homunculi (l’immaginazione riproduttiva e l’immaginazione produttiva, l’immaginazione e la facoltà estimativa, l’intelletto e le varie forme di memoria, l’intelletto e l’immaginazione produttiva), mediante ipotesi teoriche che gli permettono di generare una casistica ricca e varia di forme di conoscenza o di modalità di apprensione psicologica della realtà. Vi è un fondo di curiosità antropologica generale in Avicenna, che si manifesta con chiarezza allorché Avicenna introduce – nelle opere di filosofia naturale, in particolare nel celebre Liber sextus de naturalibus sive de anima – problemi come la natura della profezia, i poteri dell’immaginazione sul corpo, le emozioni, il piacere estetico.
Sebbene questi temi filosofici non siano discussi nel Canon Medicinae, essi influenzano profondamente la casistica psicologica discussa da Avicenna e i suoi interessi (spingendo talvolta i suoi allievi latini a integrare opere filosofiche e mediche, come faranno Jacopo da Forlì o Ugo Benzi da Siena)[1]. Il che lo rende qualcosa di più di un medico e di un filosofo di matrice aristotelica e rende lecita la comparazione con gli psicologi contemporanei come appunto Sergio Piro, che della trasformazione della psicologia in antropologia “trasformazionale” è stato il teorico per eccellenza. Per contro, quando questa grande apertura a tutte le complessità dell’umano si perde, allora il sapere medico-terapeutico viene “disciplinato” e diviene impossibile affrontare temi di frontiera i quali si degradano a mere curiosità messe sullo sfondo. Ciò che D’Acierno afferma sulla relazione musica-medicina potrebbe ripetersi anche per altri casi di problematica “psicosomatica”, per esempio quello che noi oggi chiamiamo “effetto placebo” che pure Avicenna tematizza nei suoi libri sull’anima e che si continuerà a discutere fino al Rinascimento, per poi essere messo di lato e dimenticato durante la sistemazione disciplinare della medicina moderna e essere poi riscoperto solo dopo. Implicitamente, ciò che il libro su Avicenna e Sergio Piro pone in questione è perché la problematica psicosomatica sia sempre stata “marginale” tra i medici e perfino tra gli psichiatri, identificando delle felici eccezioni, ma anche chiedendo che cosa le ha rese possibili e che cosa potrebbe renderle esemplari (e la risposta di chi scrive è già stata data sia pure in nuce: la volontà di non racchiudersi nelle confortanti barriere disciplinari, un certo gusto per l’ibridazione tra teorie.
In questo ultimo lavoro: Zanzibar and Germany in Sayyida Salmé, D’Acierno non si misura con una teoria scientifica ma con un’opera di natura letteraria, vale a dire con l’autobiografia composta in tedesco da Sayyida Salmé (1844-1924) , principessa di Oman e Zanzibar, trasferitasi in Germania dopo il matrimonio con un addetto d’ambasciata tedesco. Ma se il fuoco dell’indagine si sposta, non muta il gusto per il confronto transculturale e per l’individuazione delle questioni psico-antropologiche che rendono possibile la transculturalità. Il caso di Sayyida Salmé/Emily Rüte è due volte significativo. Innanzitutto, si tratta di un’autobiografia, ci rinvia dunque al problema di quale identità adotti (o piuttosto crei, inventi) la stessa Sayyida Salmé quando scrive e a quali stili di narrazione di Sé e della propria civilizzazione si ispiri. Ma ancor più fondamentalmente perché si tratta di una persona che deve gestire due lingue e due culture all’interno di se stessa e stabilire anzi una sorta di terza persona che giudica le prime due e seleziona ciò che appartiene all’una e all’altra. E il modo non privo di equilibrio e saggezza in cui Sayyida Salmé riesce a compiere quest’operazione (si veda anche il confronto in appendice con il caso non dissimile di Pearl Buck) conduce Maria Rosaria d’Acierno a sottolineare la pluralità multi-personale che è inerente a ogni Io e la coralità di sfondo presente nella elaborazione della propria identità (il “magma trasformazionale” citando ancora Sergio Piro). E questo è il punto nodale di interesse dell’indagine. Non tutti apparteniamo a culture così differenziate come possono essere state il sultanato di Zanzibar da un lato e la Germania bismarckiana d’altro lato. Ma tutti apparteniamo a più culture e spesso conosciamo fin dall’infanzia più lingue – e addirittura le inventiamo quando non ne abbiamo a disposizione a sufficienza, pensate ai giochi di costruzione di una “lingua segreta” da parte dei bambini – e dunque da sempre uno strumento di formazione e conoscenza diviene confrontare situazioni ed espressioni linguistiche. Dove bisogna notare che il caso di espressioni che siano simili per struttura e funzioni (questo è un cane / this is a dog) non è tipica: tipico è il caso invece in cui la stessa situazione mi faccia venire in mente espressioni linguistiche che esprimono anche punti di vista diversi (cioè diverse correlazioni funzionali tra linguaggi e propensioni psicologiche), cioè “persone” se usiamo questo termine in una accezione compiutamente de-sostanzializzata. Eppure noi riusciamo a convivere con questa pluralità e a trarne ulteriori insegnamenti. Questo è il punto centrale, delicatissimo, ma onnipresente nell’opera di D’Acierno, che ad essa ha dedicato anche molti altri studi sia dedicati al plurilinguismo e alla sua traccia nella creazione letteraria, sia alla ricerca di se stessi.
Il caso di Sayyida/Emily ha un’impronta notevole di originalità. La protagonista è consapevole della sua doppia appartenenza ed è anche consapevole di quanto profondamente radicato resti in lei il passato: ella resta una autentica musulmana anche dopo la conversione al cristianesimo, ella resta un’araba prima ancora che una tedesca (una “mezzo tedesca”). Ella difende anche alcune istituzioni tipicamente islamiche, come la poligamia, davanti al pubblico europeo, con argomenti perspicaci e inconsueti – così come difende molte delle istituzioni e dei costumi della sua terra, confrontandole con i modelli europei. Eppure, quando sceglie di scrivere, sceglie la lingua della sua nuova storia, il tedesco: non solo perché tedeschi saranno sicuramente i suoi lettori, ma anche perché quella distanza ricapitola le scelte da lei fatte seguendo il marito Rudolph ed è vissuta senza angoscia, sia pur nella consapevolezza di non poter tradurre tutto e di non potere riportare tutto della sua esperienza nella sua nuova condizione esistenziale. Qui il confronto con autrici come Leila Abouzeid che fa la scelta opposta di tornare all’arabo in segno di ribellione contro l’oppressore francese o con autori che sottolineano il loro bilinguismo e l’impossibilità sia di conciliare che di rinunciare alle due lingue, come Edward Said, diviene una piccola galleria dei possibili modelli di reazione costruttiva all’esposizione alla pluralità dei linguaggi.
Nel
libro vi è molto di più di quello che cursoriamente segnalo. Ma penso che ciò
basti per render conto della grande capacità di D’Acierno di mettere a fuoco
una storia e ad usarla come modello per pensare dimensioni più ampie
dell’accadere umano: transculturalità, multilinguismo, riconoscimento e
confronto, identità personale e di genere. Sono questi i temi con cui dobbiamo misurarci se non
vogliamo ricadere in quelle prepotenti mitologie identitarie, mitologie che
Sergio Piro ha affrontato profeticamente nelle sue ultime opere. I libri di
Maria Rosaria D’Acierno sono un buon contributo a una terapia della psiche
contro queste mitologie.
[1]Dell’antropologia di Avicenna, alla quale sono arrivato per motivi del tutto indipendenti da Maria Rosaria D’Acierno (cioè attraverso la storia del pensiero rinascimentale) mi permetto di rinviare al mio Francesco Piro, Il retore interno. Immaginazione e passioni all’alba dell’età moderna, Napoli, Città del Sole 1999, ma anche alla traduzione dei paragrafi dedicati all’uomo del Liber sextus de naturalibus da me proposta e commentata nella rivista “Forme di vita” (derive/approdi, Roma) VI (2007) pp. 51-67.
L’immagine di copertina è una foto di Sayyda Salmè da Wikipedia