Di Geraldine Meyer
Remoria. La città invertita di Valerio Mattioli, da poco arrivato in libreria per i tipi di minimumfax, è una sorta di burrascoso, infernale e intestinale what if. Un’ucronica allostoria che ci dice cosa sarebbe accaduto se invece di Roma, fondata da Romolo, ci trovassimo ad avere a che fare con Remoria, fondata da Remo. Remoria, una specie di negativo, occulto sì, ma forse più presente di quanto non si creda. Roma, fondata su un interdetto, un fratricidio, un atto universalmente considerato contronatura, cela il vitalismo selvaggio delle proprie viscere, del suo “buco del culo”, come ci ricorda Mattioli.
Remoria, città invertita dove invertita ci richiama, tra queste pagine, allo sterile, e anche solo per questo rivoluzionario, accoppiamento anale, è ciò che pochi hanno voluto vedere e di cui, ancor meno, hanno voluto parlare. La città invisibile in cui il concetto stesso di centro e periferia vengono sovvertiti, distrutti, ribaltati, cresciuta come melma o sperma attorno, in mezzo, dentro e fuori dal GRA, il sacro GRA.
Quella strada del tutto inutile, disfunzionale che, con la sua circolarità, si contrappone all’ordine quadrato della Roma fondata sugli angoli retti, dando vita al sistema complesso che Mattioli chiama borgatasfera, da lui definita: “ l’insieme di gesti attraverso cui la periferia romana postbellica, nata negli stessi anni del GRA e anzi dal GRA partorita, impone la propria centralità su un organismo urbano il cui centro ufficiale identifica null’altro che una minuscola parte del territorio complessivo.”
Un libro che, tra autobiografia, musica, cinema, critica letteraria, urbanistica, sociologia, ci costringe a rivede i concetti stessi di marginale, di sotterraneo, di nascosto. Portandoci per mano tra l’Ostia di Pasolini, proletariato, punk, rave, eroina, ’68, ’77, riflusso e naziskin. Per arrivare alla famigerata gentrificazione a cui approda, spesso, la cattiva coscienza di un’urbanistica che dietro la parola riqualificazione altro non fa che mettere a profitto i margini. Scrive infatti Mattioli: “La gentrificazione aveva il tocco appiccicoso di chi parla la tua stessa lingua ma sembra averla imparata su un dizionario. […] Il suo effetto era narcotizzante, di una narcosi che nemmeno prevedeva il confronto terrifico con l’ignoto. […] Gli affitti si alzavano, le rendite si impennavano, la testarda improduttività del margine diventava essa stessa motivo di profitto.”
Remoria è un libro che, letteralmente, scotta tra le mani per la capacità di mostrarci le macerie di un futuro che, in realtà, è sempre stato presente. E che, ora, ci crogioliamo a stigmatizzare puntando il dito su discariche e campi rom. C’è un furibondo e coltissimo mix di alchimia, di horror, di cyborg, di quella che giustamente è stata chiamata psicogeografia, di storia delle sottoculture, in queste pagine. Senza retorica, senza paternalismo quanto, semmai, con lo sguardo del cane, lo sguardo dal basso, con il naso attaccato alla strada per annusarne i miasmi. Nessun riscatto, forse, nessuna redenzione. Solo una spaventosa lucidità, una luce improvvisa, violenta come un fulmine e che solo può arrivare se si guarda il buio.
Remoria è la cattiva coscienza di ciascuno di noi, il rimosso che prima o poi ritorna arrivando anche a prendere il sopravvento sull’arroganza del centro, di ogni centro che si arroga il diritto di autoproclamarsi tale. Ecco perché il GRA, il Grande Raccordo Anulare diviene qui davvero l’infinito uroboros, senza inizio e senza fine, dentro e fuori dal quale ciò che si propaga può propagarsi solo per contagio, come un virus. Scrive Mattioli: “Quando il margine festeggia, lo fa per contagio, non per fecondazione. Il suo veicolo di trasmissione è il virus, il batterio, il parassita. D’altronde parassita è l’epiteto che, nella nostra tracotanza idiota, da sempre il centro rivolge alla periferia.”
Remoria è, in un certo senso, la vendetta che ogni periferia del mondo si prende proprio essendoci anche quando si vorrebbe non ci fosse.
Saggistica
minimumfax
2019
283 p, brossura