Le ombre adorne
Di Paolo Massimo Rossi
Storia di un disagio psicologico ma anche del ritrovamento casuale di un diario: l’una e l’altra, le due storie, profondamente compenetrate sino a negarsi alla possibilità di precisarne i confini.
Il protagonista Diego trova un diario apparentemente scritto da una sconosciuta, inizia a leggerlo, vorrebbe identificarne l’autrice, ma la sua ricerca non avrà esito. Né potrebbe. Infatti, nel progredire della lettura può farsi strada e trovar credito un’altra verità (che l’autore coccola, suggerisce senza farla propria dichiaratamente, lasciandola filtrare in un gioco di ombre e rimandi), cioè che le vicende del diario non siano quelle raccontate a Diego da una sconosciuta, ma che siano state scritte – ipotesi fantasiosa e letterariamente “Beckettiana” – proprio da Diego stesso. (Lente d’ingrandimento sulla scrittura: le pagine del diario hanno stile e cadenze che, pur apparentemente altre rispetto al racconto principale, rimandano e assecondano – nel ritmo e nei modi poetici – quelle che, extradiegeticamente, distinguono quest’ultimo).
In altri termini viene negata la possibilità del riconoscimento: chi è l’autrice del diario? Latita, cioè, l’agnizione, quel topos delle opere narrative o drammatiche che consiste nell’improvviso e inaspettato riconoscimento dell’identità di un personaggio, così determinando una svolta cognitiva nella vicenda.
Ma Vito Moretti non si presta al gioco ormai invalso in molta letteratura corrente in cui si accetta (privilegia) la prevaricazione dell’elemento funzionale-comunicativo su quello stilistico-espressivo. Il suo linguaggio è ancora portatore di motivi lirico-sentimentali, (e di un lirismo che, là dove si alterna alla cronaca, è così profondo da apparire esasperato), volontariamente sottraendosi alle necessità di farne mercimonio: un modo per dire, in sostanza, che la storia è al contempo interiormente pudìca e universalmente metaforica. in altri termini un viaggio che semplicemente “si inoltra nei corridoi nell’anima“, senza indulgere a coups de theatre.
Anzi, l’autore sembra esplorare di continuo, e con sommessa autoironia, la realtà della scena quasi con l’intento di proporre un docile riconoscimento tra Diego e i personaggi del diario, l’uno e gli altri veri (come possono essere veri in un racconto di fantasia) mentre reciprocamente si raccontano di sé (a pag. 83 si legge: “Ogni persona che è passata nella mia vita ha lasciato sempre un po’ di suo e si è portato via un po’ di mio). In fondo un dialogo sui dialoghi dell’altro/a: il vero stigma del romanzo.
Così, lo spazio e il tempo della storia, quella che parla dell’amore tra Diego e Sandra o tra la sconosciuta e gli accettati seduttori delle sue disponibilità/bisogni sentimentali, finiscono per essere percorribili in ogni senso violando (giustamente nel contesto vigente) l’unità aristotelica. Allora, il percorso si fa indeterminato e irregolare, anzi l’indeterminatezza si innalza a metodo proprio nella scrittura che è priva di alcuni elementi canonici che identificano i dialoghi (apici e virgolette) e che diventa emblematica dell’osmosi tra racconto principale e narrazione nel diario. E non a caso manca in ambedue una narrativa circostanziata delle patologie – sottinteso mal di vivere di Diego e della sconosciuta – che siano esaustivamente sviluppate nel loro progredire e nella loro risoluzione.
Anzi, Moretti sembra glissare su un’analisi precisa della malattia di Diego (se non adombrandone la causa alla perdita della moglie Sandra), per privilegiare, malgrado tutto, un messaggio del cuore e una sottintesa speranza, questa criptata nelle pieghe della riservatezza (a pag. 96 si legge: “Diego … cercava di non affliggere nessuno, di non rattristare né impensierire …”. E ancora: “… La sera e poi la notte – che un tempo gli accorciavano il fiato – iniziavano a dargli tregua e sollievo”). D’altra parte lo stesso medico, in un momento in cui la saggezza permette di tirare le somme sulle inafferrabili volubilità della vita, dice a Diego: “Dimentica le parole che ti sono fatica … e sappi che c’è l’inferno – certo che c’è e può essere qui – ma ti dico che esiste pure il paradiso, se metti l’animo nel verso giusto…”
Ed ecco, dunque, il messaggio: riscoprire l’aldilà della malattia avendo la
cura di sé come scopo semplice della vita. Qualcosa che si costruisce non
isolandosi dal mondo ma condividendo(lo) (con una sconosciuta aleggiante, con
gli altri personaggi della storia, con una moglie amata), ma anche ponendo(si)
domande, ed educando(si) alla conoscenza di sé e degli altri. Sapendo che il
trovare è sempre incerto e fragile, in fondo come il ripensare, che può
travalicare quanto già visto e che può aver visto più di quanto sia possibile
ricordare.
Ultima nota. Il dipinto in copertina, è un quadro di Edward Hopper (Solitudine
di un giorno d’estate), emblema di un disagio esistenziale fissato
emblematicamente in un’immagine che è perfetta nel suo essere contraltare del
racconto.
Narrativa
Tabula Fati
2016
128 p., brossura