LA FERITA CHE CURA (E MUTA) DI ANTONIA CHIARA SCARDICCHIO
Di Carolina Montuori
La ferita che cura di Antonia Chiara Scardicchio, edito nel 2018 da AnimaMundi Edizioni, è uno di quei libri che giunge nella casa di ogni lettore con la leggerezza di un gabbiano, facendosi portavoce di un messaggio (che è anche domanda) profondamente umano: “Cosa posso imparare da te, dolore?”.
L’autrice racconta: “Questo dolore mi ha raggiunto perché sono una creatura incarnata. Questa è l’identità che ci caratterizza. È la carne. Non per punizione. È carne vocata all’incontro con la sofferenza: ma no, non perché figlia di un Dio sadico e crudele!”.
Tutto ciò non esclude una via di salvezza, piuttosto rettifica quella via di fuga che ogni essere umano istintivamente ricerca nell’incontro-scontro con la sofferenza, perché: “il dolore è questione di libertà, creazione, punto massimo d’espressione della nostra soggettività […]”.
Ecco che questo gabbiano dal manto azzurrino restituisce un pensiero da osservare in profondità. La Scardicchio infatti ribadisce perentoriamente: “Il dolore atterrisce oppure rivoluziona” e ciò avviene con l’abbandono di ogni logica utile, ma inconsistente rispetto allo sguardo di chi soffre e di chi gli è accanto.
L’autrice riferisce ancora che “una ragione ulteriore ci rende possibile concepire quel che alla logica binaria è precluso: che cadere può essere salire. E che fallire, soffrire, spaccarsi hanno bellezze collaterali, allo sguardo che non le riconosce mortali”.
Coerentemente con la filosofia della pedagogista, sono presenti nel testo alcuni esempi di bellezze collaterali, tali da rendere questo libro una ferita aperta, che accoglie le parole di chi vuole trasmettere bellezza. Sono poesie o brevi estratti di autori vari come Mariangela Gualtieri, Chandra Livia Candiani, Rainer Maria Rilke e altri.
Ancora la domanda: “Cosa posso imparare da te, dolore?”.
“Quando arriva la sofferenza, quando arriva la manifestazione potente della nostra fragilità, in ogni sua forma, quello è il grande momento in cui la Vita, col suo fare baldanzoso e graziatamente incontrollabile e prevedibile, ti dice: ‹‹Tu non sai››”.
La risposta al dolore è: “Un salto di forma”. Esso è la chiave di volta che fa acquisire all’autrice “un conoscere per possedere, controllare, tenere noi manubri e freno” fino ad una “rivoluzione di ambizione e di collocazione” che è essa stessa una nuova forma di sapere dettata da “un’apertura di sguardo” attenta dalla ferita al mondo e viceversa.
L’autrice si chiede, infine: “Qual è l’identità di me curante? Esistono modi e parole per la consolazione? Che cos’è la cura? Che tipo di sapere intorno al dolore e alla felicità innerviamo, raccontiamo, ci raccontiamo?”.
Un sapere che s’intravede attraverso lo sguardo di chi ama, dentro la ferita, perché ne scorge la sua possibile collaterale bellezza: riconoscere che ogni essere umano è opera d’arte. Ecco perché, conclude la scrittrice: “ […] graziatamente, non esiste una vita senza caos […] perché caos è uno dei nomi della creatività”.
È lo sguardo “materno” d’amore la ferita che cura.
Saggistica
Animamundi Edizioni
2018