Soumaila Sacko: storia e vocabolario di un omicidio
Pacchia- sostantivo femminile: condizione di vita facile, piacevole, senza responsabilità e preoccupazioni, in cui ci sia abbondanza di agi e di piaceri; cuccagna
Nel giugno 2014, i suoi piedi toccano il suolo italiano per la prima volta, dopo un viaggio lungo, pericoloso, straziante, uno di quei viaggi di cui i più preferiscono non sentir parlare, per non fare i conti con nulla e sentirsi assolti. E’ Taranto la sua porta d’ingresso per l’Italia: viene recuperato a largo, per fortuna ancora vivo, dalle navi della Marina Militare e portato in salvo insieme a tanti altri giovani e meno giovani, uniti dallo stesso destino: essere nati nella parte sbagliata del pianeta. Volti senza nome nè provenienza, frettolosamente identificati all’interno di categorie grossolane, corpi e anime in pasto alle statistiche, ai plurali cumulativi della comunicazione rapida. Dell’esistenza di Soumaila Sacko però, maliano di ventinove anni, sposato e padre di una bambina, veniamo a sapere solo il 2 giugno del 2018, giorno in cui il bracciante africano viene ucciso a fucilate da un uomo mentre, con due compagni di lavoro, recupera quattro lamiere in una fabbrica abbandonata. Soumaila non muore sul colpo: resta a terra sanguinante, mentre uno dei due compagni corre in cerca di aiuto. Quando i carabinieri arrivano sul posto, Soumaila è in agonia e a poco serve l’arrivo dell’ambulanza. Quella stessa sera Soumaila muore in ospedale e la prefettura di Reggio Calabria, nel dichiarare le dinamiche dell’incidente, scrive che Soumaila è stato colpito dal proiettile “verosimilmente” nel tentativo di rubare delle lamiere.
Rubare – v. transitivo, I coniugazione: appropriarsi in modo illecito di beni altrui; sottrarre ad altri qualcosa, specialmente con l’astuzia o con la frode.
Giugno: un mese fatale per la vita di questo giovane contadino maliano, costretto ad emigrare dalla propria terra a causa di una prolungata siccità sempre più insostenibile, che non gli permette di provvedere al suo sostentamento e a quello della sua famiglia. Si mette in marcia dunque, non ha scelta: attraversa il Niger, poi deserto, arriva in Libia e lì paga i dinari necessari ad attraversare il Mediterraneo. Sopravvive alla lunga traversata, a differenza di molti altri compagni di viaggio, ma nessuno sa cosa abbia provato davvero una volta giunto in Europa. Cerco di fissare per un momento dentro la mia mente quell’istante, provo a immaginare, a fare ipotesi ma non posso, nessuno può, se non chi questo momento lo ha vissuto.
Alla storia di Soumaila Sacko, al recupero delle sue tracce, a quella che è stata la sua vita in Italia per quattro anni, è dedicato “La pacchia. Vita di Soumaila Sacko nato in Mali e ucciso in Italia” , l’importante e bel libro della scrittrice e giornalista Bianca Stancanelli, edito da Zolfo nel novembre 2019. Nel caso di questo volume di 170 pagine, l’aggettivo necessario non è utilizzato a sproposito, come spesso accade: “La pacchia” ha il pregio di non limitarsi a raccontare la sciagura abbattutasi su un giovane innocente colpito da una fucilata alla testa, e rimasto per ore in agonia sotto al sole prima dell’arrivo di forze dell’ordine e soccorsi, ma va oltre e compie passi ancora più importanti. Con questo libro, la Stancanelli è riuscita a parlarci soprattutto della vita di Soumaila, della quotidianità di un profugo prima, di un richiedente asilo poi, e successivamente di un bracciante con permesso di soggiorno e protezione umanitaria che vive e lavora ogni giorno nella Piana di Gioia Tauro, con un salario misero e in nero, senza nè contratto nè contributi versati. L’autrice ha raccontato questa storia con un rigore e un rispetto assai rari, ascoltando testimonianze di chi ha conosciuto Soumaila senza abbandonarsi a pietismi dannosi, ma al contrario fornendo stime e dati reali sui tanti fattori che hanno concorso al compiersi del tragico destino di giovane maliano, poichè la Storia con la S maiuscola non è un concetto astratto e le sue conseguenze si rintracciano nelle esistenze pubbliche e private. Li chiamano invisibili quelli come Soumaila, un eufemismo ipocrita che non bisognerebbe più accettare. E’ tutto visibile, ogni cosa è sotto gli occhi di ognuno. La cecità è il vero problema.
“Scrivo di un uomo che non esiste più, di un’ingiustizia che dura”, afferma nel potente incipit Bianca Stancanelli, giornalista(prima per “L’Ora” di Palermo, poi per Panorama) e scrittrice, già autrice di notevoli inchieste su mafia e politica, che in passato si è occupata inoltre del mondo rom ( La vergogna e la fortuna, edito da Marsilio nel 2011) e di estremismo islamico (Quindici innocenti terroristi. Come è finita la prima grande inchiesta dell’estremismo islamico, Marsilio 2006); una scrittura accurata e fluida quella della Stancanelli, unita ad una ricerca scrupolosa e chiara, in grado di informare senza deformare e capace di restituire dignità ad ogni storia.
Dignità – sostantivo femminile: considerazione in cui l’uomo tiene se stesso e che si traduce in un comportamento responsabile, misurato, equilibrato; importanza che viene a una cosa dal significato spirituale, culturale, sociale che l’uomo le annette, e che la rende degna di rispetto.
Il Soumaila che la scrittrice racconta è innanzitutto un uomo strappato alla vita, un ragazzo riservato e laborioso che non può proseguire la sua esistenza nel proprio paese e che si abitua, come centinaia di altri come lui, a considerare casa quel tumulo di baracche fatiscenti; un giovane che si dà da fare, che non riabbraccia sua moglie e sua figlia da quattro anni ma che invia loro il denaro per vivere, un uomo che con quelle lamiere non deve nemmeno costruire la sua baracca, ma che va a prenderle per contribuire alla costruzione di nuovi capanni per migranti appena arrivati a San Ferdinando. Si prodiga per gli altri, Soumaila: non solo le sue braccia sono agili a raccogliere arance e mandarini, ma anche la sua memoria funziona bene, tanto da non dimenticare il suo arrivo in Calabria nella baraccopoli, in un labirinto di capanni costruiti con materiali di fortuna, senza acqua nè luce e delimitati da cerchi di immondizia. Le lamiere non sono certo cemento armato, non hanno nulla a che vedere con i tetti e i materiali da costruzione delle nostre case, ma sono sempre meglio di cartoni e listoni di plastica, quelli si infiammano facilmente e il fuoco d’inverno bisogna accenderlo se non si vuol gelare. Soumaila è ormai un riferimento per la comunità locale della baraccopoli: si impegna ad aiutare altri braccianti come lui, a rendere più sicure le loro abitazioni così poco dignitose, fonda un’associazione di maliani al fine di contribuire nell’aiuto di altri fratelli africani e comincia a prendere parte alle attività del coordinamento dei braccianti agricoli dell’USB. Come sarebbe stata la vita di Soumaila se quel pomeriggio di giugno quell’uomo, comodamente seduto su una sedia, non avesse sparato quel proiettile, ? Avrebbe frequentato il corso di italiano al quale si era iscritto? Avrebbe cercato un lavoro in un ambiente più dignitoso? Sarebbe tornato in Mali? A queste domande nessuno sa rispondere, perchè il futuro non è per tutti ma chi riesce ad entrarvi ha il dovere di sapere, di non dimenticare. Era questa la vita quotidiana di Soumaila Sacko, maliano di etnia Sarakollè, nato il 1 gennaio del 1989 (giorno di nascita casualmente comune a gran parte dei richiedenti asilo) nel villaggio rurale di Sambacanoun, distretto di Yélimane, nel Mali occidentale. Nomi esotici per le nostre orecchie, luoghi mai sentiti nominare da questa sponda del Mediterraneo, chilometri e chilometri di terre dal passato distruttivo e ancora gravoso sulla pelle degli abitanti, luoghi in cui non si vive: si sopravvive o si muore.
Questa è casa loro, ed è a casa sua, nel cimitero di Sambacanoun che Soumaila adesso riposa: la sua salma ha percorso migliaia di chilometri e dall’Italia è stata rimpatriata poco dopo la sua uccisione. Il processo per il suo omicidio procede a rilento e nella Piana di Gioia Tauro quasi tutto è rimasto invariato, tranne la baraccopoli che è stata demolita nel 2019 ma i resti delle baracche e le lamiere sono ancora lì, in attesa di essere smaltite.
A casa nostra, il 2 giugno 2018, mentre una pallottola spezza la vita di Soumaila, l’allora Ministro dell’Interno afferma durante un suo comizio, a proposito dei migranti, che”la pacchia è finita”. Una coincidenza tristemente beffarda e molto amara che rivela brutalmente, più di ogni altra cosa, quanto un cattivo utilizzo delle parole corrisponda ad una mancata conoscenza dei fatti e ad un’incapacità di pensare e di agire correttamente. Un vocabolario usato male, che non offende solo la morte di un innocente ma ferisce le esistenze di migliaia di persone che, pur non essendo (ancora?) state uccise ingiustamente per una lamiera, continuano ad essere oggi le vittime quotidiane di un nuovo schiavismo tutt’altro che invisibile.
Invisibile – sostantivo e aggettivo maschile : che non si può, non si riesce a vedere.
Emigrazione
Zolfo Editore
2019
170 p.,