Sei valigie e sei verità
Di Geraldine Meyer
Sei valigie, una per ogni segreto? Una per ciascun componente della famiglia Biller? Qualunque cosa contengano, a chiunque appartengano, sei valigie sono lì a ricordarci che questa è, prima di ogni altra cosa, questa è una storia di emigrazione, di sradicamento, di abbandono di parte della vita. Cosa che impone, sempre, di portarsi dietro l’indispensabile.
Cosa ci sia di indispensabile in questo Sei valigie, da poco pubblicato da Sellerio, lo si scopre leggendo, lo si avverte man mano che ci si addentra nella storia, autobiografica, di Maxim Biller, scrittore nato a Praga da genitori ebrei russi e, nel 1970, emigrato in Germania.
La storia, raccontata nella prima parte dalla voce narrante di Maxim ragazzino, è quella di una famiglia travolta dal sospetto, dalla diffidenza reciproca che si viveva in un regime autoritario come quello del blocco sovietico del dopo guerra. Tutto ruota attorno alla morte, per fucilazione, del nonno Schmil, arrestato nel 1960 a Mosca, per contrabbando. Questo evento è ciò da cui tutto prende avvio, nella ricerca di chi lo abbia tradito. Forse uno dei suoi figli? O la nuora, infelice e ambiziosa?
Nel clima della Guerra Fredda, Maxim Biller ci racconta una storia che, tra salti temporali e frammenti (proprio come i ricordi di un ragazzino) ci fa vedere gli stessi eventi, visti, ricordati e vissuti in modi diversi. Come se ciascuno dei protagonisti avesse una cinepresa e, con questa, riprendesse la stessa scena da angolazioni diverse.
Ciascuno di loro sembra invischiato nelle proprie paure, nei propri sogni traditi, ciascuno di loro sospetta degli altri perché quello è il canovaccio dei rapporti umani in quei tempi. Una sorta di metafora familiare dei rapporti tra est e ovest. Uno spartito in cui gli venti di quegli anni si intrecciano nella storia di ciascuno dei protagonisti di questo libro.
Un dramma storico che diventa un dramma personale, in cui gli stessi rapporti umani e familiari non riescono a passare indenni attraverso il clima di sospetto e paura causato da uno stato di polizia. Chiedersi dunque chi possa essere stato il delatore diviene il pretesto narrativo per raccontare un clima storico e politico. Nelle cui maglie si mescola l’antisemitismo e la fragilità stessa di ognuno dei componenti della famiglia, lo smarrirsi delle certezze. E nei solchi creati dal sospetto si insinua quella ambiguità che altro non è che la possibilità, per ciascuno, di essere colpevole come tutti gli altri.
La storia raccontata da Biller, in questo Sei valigie, è la cronaca del disfacimento di un intero sistema che si rispecchia nel disfacimento della fiducia tra individui. Quel sapore mefitico che ogni gesto acquista anche quando sembra condurre sulla soglia di un chiarimento. Ogni volta sfugge qualcosa, ogni volta ci si trova a scivolare nei sospetti.
Sei valigie è la narrazione di cosa le persone siano disposte a fare per salvarsi la vita, di quanto si debba accettare di essere costretti a prendere anche decisioni difficili, talvolta davvero drammatiche. Eppure. Eppure Biller riesce a restare in perfetto equilibrio, per tutto il libro, tra il bisogno di sapere e la capacità di comprendere, senza giudicare, ogni componente della sua famiglia. Quasi a voler indurre un “non giudizio” sulle azioni e sulle motivazioni di ciascuno di loro. Infondo questo libro risuona quasi come un’elegia alla fragilità umana, alla disperata ricerca, per ciascuno di noi, di una salvezza. E poco importa che, a volte, in questa salvezza non vi sia redenzione. Anche se, a ben vedere, non vi è neanche colpevolezza.
Uno spaccato di storia che è anche una geografia familiare, tra Praga, Mosca, Berlino Est, Berlino ovest, Amburgo e Zurigo, tra lo scorrere degli eventi e il perpetuo “muoversi” dell’ebraismo dell’est Europa, in fuga da un nemico ogni volta diverso e ogni volta uguale.
Letteratura, romanzo autobiografico
Sellerio
2020
161 p., brossura